L’ estremo gesto! Chi lo mette in pratica e perché. Filosofia e malagiustizia

L’Italia sta sempre più divenendo il Paese dei suicidi. C’è chi capisce questo gesto disperato e liberatorio e chi lo definisce pura codardia. Ci sono individui che si tolgono la vita per problemi economici o perché chiusi in un carcere dove diventa un lusso anche respirare. Nel periodo aristotelico il suicidio veniva definito un vero e proprio atto di viltà. Lo stesso Platone, maestro di Aristotele, non accettava il suicidio se non per certune necessità ineluttabili e ne condannava l’atto vergognoso, meritevole di sepoltura senza nome. Lo stoicismo, al quale mi sento molto vicino filosoficamente parlando, è forse uno dei modelli più conosciuti di norme di vita che accetta il suicidio e, anzi, in determinate situazioni, lo rappresenta come un atto assolutamente naturale. Seneca, immenso filosofo che ha posto fine alla sua vita con un atto volontario, spinto anche da Nerone, ricorda nei suoi scritti che uno stoico non fa mai nulla contro il proprio volere quando ritiene di aver portato a termine il compito che il fato gli ha riservato, e può decidere serenamente di ‘uscire dalla vita’. L’approvazione del suicidio è la sintesi di una filosofia che insegna che i mali spesso sono tali solo in apparenza, e la morte non fa minimamente eccezione. Occorre però ricordare che il suicidio è consentito non come fuga, ma solo quando il proprio dovere è compiuto, e anche in questa circostanza è chiaramente solo una personale scelta. Pensate a un condannato accusato per un reato che non ha commesso e che, comunque, ha portato avanti una vita di rettitudine e lealtà. Lo sgomento angosciante che lo attanaglia e che cosparge di disperazione anche i suoi cari, non può che trovare soluzione nel togliersi stoicamente la vita, dal momento che la giustizia sta massacrando senza pietà il suo corpo e la mente. Un’uscita di scena con una lettera che ne spiega il motivo, ben sapendo di aver fino a quel momento svolto una vita di cui non vergognarsi, è un atto da apprezzare e condividere. Il più delle volte, infatti, si uccide l’innocente, non pronto nell’affrontare un’onta così dilaniante e umiliante; il colpevole lo può fare se già profondamente malato o se oppresso da un’estrema severità all’interno del carcere. Molti PM sono causa di questi gesti e lo stesso Seneca definirebbe loro i veri carnefici del suicida. Per Epicuro il suicidio è una totale attestazione della libertà umana sulla legge della necessità che governa la natura. Egli scrive: “È una sventura vivere nella necessità, ma vivere nella necessità non è per niente necessario”. Dante Alighieri collocherà i suicidi nell’Inferno nel cerchio dei violenti contro sé stessi (XI, 40-45 ove condanna Pier delle Vigne. Ma giustifica Catone, uccisosi ad Utica, collocandolo nel Purgatorio poiché aveva rinunciato alla vita per non sottomettersi al regime di Giulio Cesare. Presenta questo personaggio scrivendo: “libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio ,I, 71-72). Alfieri, dal canto suo, descrive il suicidio come atto non di debolezza ma di vera ribellione: quando gli ostacoli della vita diventano insormontabili e l’uomo si sente sopraffatto da un destino che lo condanna implacabilmente alla sconfitta, egli può ricorrere a tal gesto, inteso non come vigliaccheria, ma come opposizione a ciò che il fato gli ha riservato. Personalmente credo che il continuo pensiero verso la morte sia un fattore insostituibile alla creazione della morale soggettiva; fondamentale, pertanto, è l’atteggiamento del suicidio, senza l’dea del quale, sarebbe difficile resistere a qualsiasi dolore. Esso è dunque l’extrema ratio, sempre costantemente conservata nella sua fattibilità anche se poi non attuata, così da rendere sopportabile ogni dolore del corpo e dell’anima, sapendo che abbiamo questa risorsa da adoperare.

Massimo Melani 🌹

Seneca e l’atto di darsi la morte in quanto compiuto con deliberata volontà

Suicidio

Quale dovrebbe essere una risposta adeguata all’esistenza in un mondo che contiene innumerevoli sofferenze tra cui difficoltà, perdite e delusioni? Ci dovremmo suicidare per sfuggire ai disagi significativi della vita quotidiana?
Esplorerò alcuni passaggi delle ‘Lettere da uno stoico’ di  Seneca, relativamente al tema del suicidio che possono incoraggiare le persone a ritrovare la volontà di vivere lavorando per migliorare… agendo; sopportare la sofferenza; avere un senso di gratitudine; avere speranza per il futuro; riflettere sui successi passati; accettare elementi di casualità e di inevitabilità nella vita; essere consapevoli dei pensieri e delle emozioni per avere dentro motivati pensieri verso il cambiamento; prepararsi alle difficoltà; essere forte e coraggioso; considerando l’impatto che il suicidio può avere sugli altri; e trovare un senso nella vita. Seneca, nelle sue lettere, ripete un tema di agire per mettersi in ordine: non rimandare o procrastinare in modo significativo ignorando ciò a cui si può rimediare per evitare che il problema peggiori e alla fine diventi schiacciante. Come il mio, ma questo non può interessare. Gli scrittori stoici, sebbene riconoscano che il cambiamento personale può essere difficile e che un cambiamento significativo potrebbe non avvenire in un breve periodo di tempo, sono ottimisti sulla capacità degli individui – magari aiutati con l’aiuto di altri – di migliorare. Non ho amici veri. È importante notare che se uno ha pensieri significativi sul suicidio e/o ha tentato il suicidio, l’aiuto è indispensabile. Le persone possono agire cercando servizi di consulenza, come psicologi, psichiatri, medici di base. Nella sua lettera intitolata “Sulla futilità di pianificare in anticipo”, scrive Seneca :”Non rimandiamo nulla. Saldiamo il conto della vita ogni giorno. Il più grande difetto della vita è che è sempre imperfetta e che una certa parte è rimandata”. Che uomo immenso. Che la vita è imperfetta – questo è qualcosa con cui abbiamo a che fare i conti; non viviamo nelle utopie. Seneca paragona la vita a un viaggio, che nonostante ci saranno inevitabili disavventure lungo il percorso, possiamo lavorare per ricalibrarci anche se deviando da un percorso prestabilito. Sebbene ci siano alcuni elementi della vita che potrebbero non piacerci, non dobbiamo dimenticare gli elementi positivi di cui possiamo essere grati. Personalmente, sono grato solo a mia madre. Anzi, penso di odiarla perché mi ha portato alla luce… o nelle tenebre. Seneca scrive di avere un senso di gratitudine nella sua lettera intitolata ‘Sulla consolazione ai lutti’ :

“molti uomini non riescono a contare quanto siano stati molteplici i loro guadagni, quanto grandi le loro gioie”. 

Iquesto passaggio, Seneca si rivolge a qualcuno che ha perso un amico sottolineando che ci sono state molte cose buone nell’amicizia, inclusi ricordi che sopravvivono e che si dovrebbe essere grati per i guadagni passati. Possiamo anche essere grati per gli aspetti positivi del presente guardando l’intiero quadro piuttosto che concentrarci solo su alcune preoccupazioni. Forse possiamo guardare alle nostre vite come Seneca guarda alla situazione di una persona in lutto. Sebbene alcune cose siano cambiate e ora possano esserci sentimenti di disperazione e dolore, possiamo notare gli aspetti positivi del passato e del presente. Non ho quasi mai notato aspetti positivi nella mia vita. Egli scrive:

“Le persone pongono un limite stretto ai loro godimenti se provano piacere solo nel presente; sia il futuro che il passato servono per la nostra gioia” .

Il futuro può davvero servire per la nostra gioia e contenere qualche speranza.Seneca, nella sua lettera “Sulla futilità della pianificazione futura”, parla di come il futuro, soprattutto il futuro lontano, sia incerto. Io non ho mai avuto un futuro, solo un presente mortale. Forse potremmo pensare che le nostre vite possano essere orribili in questo momento e che non ci sia speranza di cambiamento o motivo di ottimismo, ma non può essere così – ci può essere cambiamento e speranza, una migliore condizione di vita nei prossimi anni, settimane, o anche giorni. Mai avuto, in quanto a me, speranza o un miglioramento delle condizioni. Forse ci sono anche momenti, all’inizio della nostra vita, in cui abbiamo affrontato una profonda disperazione, ma abbiamo superato la sofferenza e abbiamo avuto nuove opportunità e nuove speranze anche se pensavamo che la nostra lotta fosse senza speranza e il recupero fosse impossibile. Anche se potremmo credere che non ci sia speranza di cambiamento, dovremmo davvero sfidare questa linea di pensiero data l’incertezza del futuro e gli esempi passati di superamento di tempi difficili. 

Seneca scrive: “Perché il turbamento può derivare dai mutamenti e dall’instabilità del caso, se sei sicuro di fronte a ciò che è insicuro?” In poche parole, non possiamo essere certi di un futuro cupo quando il futuro è incerto e fuori dalle nostre mani. Si può abbracciare un senso di accettazione radicale e consapevolezza per ciò che è accaduto in passato sapendo che, sebbene possiamo imparare e riflettere sul passato, non possiamo cambiare ciò che è accaduto. Quanto è vero! Possiamo anche accettare le emozioni che proviamo e i pensieri che stiamo vivendo nel presente pur essendone consapevoli. Senza consapevolezza e deliberazione potremmo diventare semplicemente reattivi, impulsivi e non cercare di migliorare noi stessi o chiedere aiuto agli altri. Piuttosto che semplicemente lamentarci, specialmente per cose che non possiamo cambiare o su cui abbiamo poco o nessun controllo, possiamo accettare e lavorare su come reagire meglio agli eventi che possono essere associati a pensieri suicidi. Non dovremmo negare le nostre emozioni o cercare di essere privi di esse, ma piuttosto analizzare i nostri pensieri e le nostre emozioni lavorando per rispondere in modo più appropriato e produttivo ai nostri guai della vita, invece di catastrofizzare e aggravare i nostri problemi: possiamo accettare ciò che stiamo pensando e provando. Seneca scrive nella sua lettera intitolata “Sulla consolazione al lutto” rivolgendosi a una persona in lutto:” Le lacrime cadono, non importa come cerchiamo di controllarle, e quando vengono versate alleviano l’anima. Cosa dobbiamo fare, allora? Lasciamo che cadano, ma non ordiniamo loro di farlo; lasciamo che l’emozione inondi i nostri occhi, ma non come richiede la semplice imitazione. Non aggiungiamo, infatti, nulla al dolore naturale, non accresciamolo seguendo l’esempio degli altri. Io, l’esempio da non seguire mai. È  possibile estendere il nostro senso di sofferenza, aumentare la nostra disperazione, ma sicuramente questa non è una direzione utile verso cui muoverci. Chiediti perché potresti provare quello che stai provando e lavora per migliorare te stesso. Quante volte ho provato, mio adorato Seneca. Dopotutto, persone diverse rispondono in modo diverso a eventi diversi, quindi sicuramente non è l’evento o il pensiero in sé a causare il sentimento, ma piuttosto la propria risposta all’evento – è in nostro potere, direbbero gli stoici, alterare i nostri giudizi, le nostre impressioni, il modo in cui pensiamo alle cose. Seneca scrive, “accetta con uno spirito imperturbabile ciò che è inevitabile”. Questo obiettivo nobile e difficile è sicuramente quello che può aiutarci a sopportare le difficoltà. Seneca, non ti merito! Questo spirito imperturbabile, sopportando sofferenza e prevalendo, è discusso nella lettera di Seneca intitolata “Sulla volubilità della fortuna” in cui Seneca ripete temi di incertezza verso il futuro, anticipando le difficoltà e pensieri sull’avere un carattere forte e resiliente. Scrive diverse linee di ispirazione, modelli di un saggio stoico che possiamo lavorare per emulare. Ho provato e provato e provato senza mai riuscirci. “Un uomo cattivo fa tutto male, anche cose che sono venute con l’apparenza di ciò che è meglio, ma l’uomo retto e onesto corregge i torti per fortuna e addolcisce le difficoltà e l’amarezza perché sa sopportarle; allo stesso modo accetta la prosperità con apprezzamento e moderazione e resiste ai problemi con fermezza e coraggio. Anche in questo passaggio vediamo temi di gratitudine, accettazione, non peggioramento dei nostri problemi personali e un comportamento attento. Come possiamo attenuare le difficoltà? Sicuramente la lettera di Seneca intitolata “Sull’affrontare le difficoltà” è un buon punto di partenza con cui acquisire una prospettiva. Seneca parla di più dell’inevitabilità nella vita e dell’accettazione confrontando la vita con un viaggio e una battaglia che include alcune lotte che in alcuni casi dovremmo persino abbracciare. Non possiamo vivere una vita senza lottare e non dovremmo preferirla, pensa Seneca, ma possiamo lavorare per mitigare la nostra disperazione, le nostre preoccupazioni e la nostra sofferenza. Possiamo anche mostrare eroismo e coraggio nel superare le avversità. Ecco alcuni passaggi di Seneca che scrive all’amico Lucilio:” Pagherò volentieri tutte le mie tasse. Ora tutte le cose che ci fanno gemere o indietreggiare fanno parte della tassa della vita, cose, mio caro Lucilio, che non dovresti mai sperare e mai cercare di sfuggire. Una lunga vita include tutti questi problemi, proprio come un lungo viaggio include polvere, fango e pioggia. E la vita, Lucillius, è davvero una battaglia. Per questo coloro che sono sballottati per mare, che procedono in salita e in discesa per rupi e alture faticose, che fanno campagne che portano il maggior pericolo, sono eroi e combattenti di prima linea; ma le persone che vivono nel lusso e nell’agio marcio mentre gli altri faticano sono semplici tortore al sicuro solo perché gli uomini le disprezzano”. Quindi, la vita conterrà delle difficoltà, si può dire, ma come possiamo far fronte a quelle che ci colpiscono senza preavviso? Possiamo essere improvvisamente devastati. Forse gli imprevisti improvvisi, quelli per i quali non ci siamo preparati, sono legati a pensieri sul suicidio. Quanto mi capisci amico mio caro. Forse la morte di una persona cara, la dissoluzione di una relazione, un trauma passato, la depressione, le reazioni a un evento – beh, il passato è passato e sono accadute cose al di fuori del nostro controllo. Forse, però, possiamo prepararci meglio per il futuro rendendoci conto che il caso può farsi sentire in peggio. Possiamo imparare lezioni dal passato e lavorare per ricostruire e rafforzare noi stessi. Seneca ha scritto una lettera intitolata “Una lezione da trarre dall’incendio di Lione” in cui discute di un incendio improvviso che ha devastato un’intiera colonia pacifica, prospera e bella: non c’era alcun avviso o opportunità per fermare il fuoco mentre in altri casi, gli incendi hanno danneggiato solo parti di luoghi di valore e le persone avrebbero potuto impedire la distruzione. Lui scrive: “è l’imprevisto che ci mette il carico più pesante. La stranezza aumenta il peso delle calamità e di conseguenza ogni mortale prova un dolore più grande che porta anche sorpresa. Pertanto, nulla dovrebbe essere inaspettato da noi. Le nostre menti dovrebbero essere inviate in anticipo per affrontare tutti i problemi e dovremmo considerare non ciò che accadrà abitualmente, ma ciò che può accadere”. Sicuramente essere preparati ci aiuterà ad affrontare le difficoltà non se arrivano, ma quando arrivano. Non dovremmo avere un’ansia estrema per il futuro, soprattutto pensando che la nostra attuale disperazione durerà per sempre e persino peggiorerà come ho scritto sopra, ma piuttosto che accettare, anticipare e affrontare meglio. Dopotutto, scrive Seneca, le difficoltà possono emergere in qualsiasi momento: tutti ne sono afflitti. Forse puoi trovare la motivazione per vivere riconoscendo la tua parentela con gli altri e non solo rendendo le loro vite più tollerabili, più soddisfatte, ma anche migliorando te stesso nel processo per avvantaggiare gli altri è un tipo di ricompensa. Come scrive Seneca nella sua lettera intitolata “Sui vantaggi”. “Non c’è uomo che, quando ha beneficiato il suo prossimo, non abbia beneficiato se stesso, il salario di una buona azione è averlo fatto” . Forse anche un po’ di svago può aiutare: possiamo essere intrattenuti, intrattenere e persino imparare nel processo impegnandoci in un hobby, trovando qualcosa di nuovo da fare, esercitandoci, suonando uno strumento musicale, leggendo e guardando programmi televisivi o film… le possibilità sono vaste. Non per me, amatissimo Seneca; non per me. Ricapitolando, possiamo (non io) ritrovare la voglia di vivere lavorando per migliorarci agendo; sopportare la sofferenza; avere un senso di gratitudine; avere speranza per il futuro; riflettere sui successi passati; accettare elementi di casualità e di inevitabilità nella vita; essere consapevoli dei pensieri e delle emozioni per avere insight motivati verso il cambiamento; prepararsi alle difficoltà; essere forte e coraggioso; considerando l’impatto che il suicidio può avere sugli altri; e trovare un senso nella vita. Il suicidio, caro Seneca, è per il sottoscritto l’unica cosa che dà senso alla mia vita. MM

PS: I passaggi delle lettere di Seneca sono stati da me tradotti dal latino riportando, pertanto, il mio personale Via ad transferendum, con implicazioni soggettive, vista la mia passione e il mio ardore per questo enorme scrittore. Massimo Melani 

Si uccide a causa della sua malattia: disturbo dell’eccitazione genitale persistente

Eccitazione genitale persistente

Tempo fa scrissi di una donna inglese, la signora D. G. , colpita da una malattia molto rara, che è l’iper-sessualità. LA donna sta, attualmente, cercando di uscirne. Chi non ce l’ha fatta, invece, un’altra giovane della Florida, che convivendo con la stessa malattia, non ha più retto e si è suicidata agli inizi di dicembre, dopo che la sua storia è diventata pubblica. M. G. – evidenzio solo le iniziali per protezione della privacy di queste donne – è stata trovata morta intorno alla mezzanotte di giorni addietro, dopo che nel mesmo giorno è stato pubblicato on line ( su Tampa Bay Times) il servizio che metteva in piazza tutti i suoi problemi esistenziali.  E’ stata la tragica fine di una donna che conviveva con quello che credeva essere da anni un peccato segreto. Noto in medicina come “disturbo dell’eccitazione genitale persistente” è stata per la prima volta, nel 2001, dalla psicologa americana Sandra Leiblum. Questa patologia fa sentire le donne continuamente sessualmente stimolate, ma non psicologicamente.  La sensazione è incontrollabile, e alcune donne trovano sollievo temporaneo masturbandosi per lunghi periodi di tempo. La causa, secondo i medici, potrebbe essere una disfunzione del nervo. Non c’è stata nessuna cura per tutto il trattamento, ma alcune di loro hanno usato farmaci per trovare un sollievo temporaneo. Non è chiaro quante soffrano di questo disturbo persistente. M. G. non ce l’ha fatta più… Quante altre donne sono nelle stesse condizioni, ma non vanno dal medico perché si vergognano? La società in cui viviamo è una bestia senza pietà e ritegno alcuno, poiché accetta ogni tipo di malattia, ma non quelle a livello psico-sessuale; devono essere sbattute in prima pagina per fare audience, e per far ammiccare sdegnosamente le persone ottuse… E, intanto, chi è meno forte psicologicamente si suicida… Il vero, unico assassino è la collettività! MM https://www.instagram.com/p/CddnyWoMoCLfFzT8yE5KVdLHCfS64qi46PX_eg0/?igshid=MDJmNzVkMjY=

Perchè si arriva all’estremo gesto del suicidio

Negli animali è molto ben radicato l’istinto di sopravvivenza, il desiderio spasmodico di vivere. Nell’uomo tale impulso naturale viene molto spesso deliberatamente messo in discussione. Le motivazioni per spingersi all’estremo gesto finale possono essere molteplici: un distruttivo periodo della nostra esistenza, la mancanza di risorse finanziarie, o dopo un conscio e intenzionale cammino alla ricerca della strada che ti porti a liberarti di una vita colma di sofferenze e disperazione. L’improvviso desiderio di morte in una persona, che magari fino a pochi giorni prima era l’immagine della vitalità, genera forte malessere tra parenti, amici e conoscenti. Per suicidio, quindi, (dal latino suicidium, uccisione di se stessi) si intende il momento in cui un individuo si procura deliberatamente la fine della sua vita. Fino a pochi anni fa questo atto estremo veniva quasi sempre associato ad una malattia mentale o a certi disturbi causati dall’abuso di droghe, alcool e psicofarmaci. Poi la mente umana si è un tantino più aperta e si è resa conto che l’essere umano si suicida pur non facendo uso di tali sostanze. L’ uomo (o la donna), può uccidersi anche perché è stato tradito/a dalla sua compagna/o ; se, come detto sopra, non ha più la possibilità di sostenere la famiglia economicamente e preso da un profondo senso di inutilità misto a vergogna decide di farla finita. È il mercato della vita! Non ce la fai a pagare i debiti, non sei stato capace di fare fortuna, sei un poveretto che si barcamena per pagare le tasse e debitori? Peggio per te, dovevi fare un altro mestiere, in questo sistema sopravvivono solo i veri duri. Questa una della possibili risposte al perché si arrivi a tanto. Cinismo? Cattiveria? Disinteresse? Solo una risposta: Italia!!! MM https://www.instagram.com/p/CZtyuhHMQQewAT9hOucIn308B5k9qMw5ynS6KU0/?utm_medium=share_sheet

Uno studio del Baker Heart Research Institute di Melbourne riferisce che la primavera e l’estate sono causa di molti suicidi

Primavera ed estate sono le stagioni a maggiore rischio suicidio. A dispetto delle credenze piu’ comuni, che vogliono la depressione e l’istinto al suicidio legati ad autunno e inverno, arriva uno studio australiano condotto nel corso di dieci anni. ”Nei periodi di maggiori ore di luce aumenta la percentuale dei suicidi, mentre non esistono altri legami significativi tra questo gesto e altri elementi meteorologici come il cambio della temperatura o la pioggia”, riferisce sull’American Journal of Psychiatry Gavin Lambert, del Baker Heart Research Institute di Melbourne.

La spiegazione di questo fenomeno appare pero’ ancora incerta. Ricerche precedenti hanno stabilito una connessione tra il maggiore irraggiamento solare e i livelli di serotonina nel cervello, l’ormone con comprovati effetti benefici sulla depressione.

D’inverno la quantita’ di serotonina ‘precipita’ e quindi aumenta la depressione. Ma per i ricercatori australiani non bisogna confondere la depressione vera e propria, con il disordine affettivo stagionale (Sad), che colpisce con maggiore frequenza nei mesi invernali.

”A dispetto del fatto che i depressi hanno bassi livelli di serotonina e che la depressione e’ legata alle probabilita’ di suicidio, il suicidio stesso non sembra in relazione con bassi livelli di serotonina nel cervello”, continua Lambert. Una possibile spiegazione, per l’esperto, e’ che i mesi invernali ‘preparino il terreno’, per una situazione esplosiva che puo’ innestarsi con l’arrivo della primavera. ”In ogni caso – conclude – i fattori che determinano l’attitudine al suicidio sono tanti. Certo e’ che da sola la light terapy non riesce a curare le persone depresse”.

 

Metamorfosi. Dio o demone? (Da Il Raccontafavole)

Com’era arrivato a questo? Non lo sapeva. Era lì sudato con la pistola appoggiata alla testa. Le urla, ormai, le sentiva attraverso la porta chiusa.

Tutto faceva pensare che non avrebbero tardato molto ad entrare, ed allora sarebbe successo l’inevitabile.

Ma, cosa desiderava veramente in quel preciso momento?

Essere giudicato da una moltitudine di uomini e donne con sete di vendetta, o direttamente da  Dio?

Forse, finire tutto con un colpo alla testa sarebbe stata la migliore soluzione, e non ci sarebbe stato nulla da spiegare a nessuno, seduto davanti a un tavolo di tribunale.

Molte volte aveva deciso di annulare una vita, tanto spesso che sentiva dentro di sé il potere sovrannaturale di interrompere o far continuare un’esistenza…così, perché ne apprezzava la cosa.

Ma, ora, la situazione si era capovolta, e non aveva tempo per una scelta appropriata.

Le grida si facevano sempre più vicine e distinte; quanto sarebbe rimasta ancora chiusa quella porta?

Avrebbe dovuto aprire o far scattare il grilletto della sua pistola.

Le domande si ripetevano nella sua mente, sempre seduto con le ginocchia al petto e gli occhi semi chiusi. Continuava a sudare e ricordava le cose che aveva fatto in passato.

Tutto cominciò come una nuova esperienza: un paese vicino al suo, una prostituta straniera, una piccola stanza di hotel immersa in un irrespirabile fetore; sì, un luogo come quello in cui si trovava.

Poi, l’improvviso bagliore del coltello nel buio, solo un colpo netto che raggiungeva la ragazza, ponendo fine alla sua giovane vita. A differenza di ora, invece, non vi furono urla, solo un lieve, prolungato gemito.

Fu molto più facile di quanto si aspettasse, ma non era come nei film che aveva visto.

Quella notte si sedette accanto al cadavere per ore, fino a quando il sole risvegliò l’altro lato della città.

Nessun pentimento, nessun raccapriccio, stava cominciando un nuovo cammino e la sua vita finalmente aveva un senso.

Dopo quella notte, non riuscì più a spegnere la sua sete di sangue.

Da allora cominciò a studiare meticolosamente i suoi progetti: una città in cui non lo conoscevano, l’avvicinamento di una vittima che lui avrebbe giudicato più debole, tipo un barbone, una donna, un ubriacone; ecco, questo era il suo repertorio principale.

Guadagnava la loro fiducia, e subito dopo, per un attimo, si trasformava in Dio sulla terra.

Si giustificava con se stesso definendosi colui che dava loro la possibilità di redimersi, perdonando, poche volte, o ponendo fine alla loro miserabile esistenza.

In certune occasioni le sue disgraziate vittime supplicavano di finirla al più presto, perché amava anche torturarle; anelavano la fine di quel vero e proprio inferno.

Dal suo punto di vista, erano favori che faceva, un ultimo favore.

Intanto, immerso nei suoi pensieri, iniziava a sentire i pesanti colpi sferrati dall’altra parte della porta, che aveva bloccato con una sedia proprio sotto la serratura.

E pensava a quei disperati, intenti a fargliela pagare quanto prima, che si sarebbero presentati innanzi, con troppa rabbia e dolore nel cuore.

Egli conosceva certi stati d’animo, nascostamente era entrato nelle case delle persone uccise durante le veglie funebri; sapeva ciò che provavano.

Lui scuoteva la testa, sembrava voler porre fine una volta per tutte alla storia; una pallottola in testa e amen.

L’”assassino delle viuzze“, questo era il nomignolo che gli aveva affibbiato la stampa per i suoi continui attacchi  in zone non centrali delle città.

Capirono presto che era opera sua: sempre l’uso del coltello e sempre nei bassifondi di remoti villaggi dimenticati.

Non gli era mai piaciuto quel soprannome, ma sapeva che la società doveva, in qualche modo, battezzarlo, così avrebbe avuto meno paura, perché quelle morti avevano una spiegazione, ciò che si conosce fa meno terrore dell’ignoto.

Lui, non riusciva a capire perché lo chiamassero “assassino”.

Non poteva pensare che tutti fossero così ciechi, che non si accorgessero che stava facendo un favore all’intiera umanità.

Non era forse vero che le persone che lui torturava e uccideva, venivano descritte dalla chiesa come anime perdute che avevano smarrito la retta via?

Dava loro solo una mano, metteva fine a quella sofferenza e le instradava per vie migliori.

Che ironia, stava pensando, quelle persone al di là dello sbarramento vogliono finirla con lui per quello che aveva fatto, per come aveva giudicato quelle scorie, e ora lo trattano allo stesso modo.

Gli gridavano improperi da dietro la porta, e lui chiudeva gli occhi, tanto già conosceva il contorno di quei volti colmi di rabbia, quelle persone che urlavano e sputavano allo stesso tempo, armati di bastoni e coltelli. 

Alcuni erano vicini di casa, altri venuti da fuori, e c’erano persino dei bambini.

Qual era la differenza? Solo che, ora, si trovava dalla parte sbagliata.

Adesso, avevano loro il potere, e avrebbero giudicato colui che prima si sentiva Dio.

E lui capiva, e non li odiava, adesso la forza era tutto nelle loro mani.

Come quando adescò, per ore, un ubriaco all’interno di un bar.

Accidenti a quel vecchio marinaio ubriacone, pensava!

Non vedeva l’ora che chiudesse quel locale per uscirne insieme, e porre fine a questo anziano esploratore di mari.

Bevvero whisky e birre quella notte, come fossero vecchi colleghi e ascoltò tutte le sue stupide storie da vecchio lupo di mare.

La metà di ciò che narrò erano panzane allo stato puro, ma dentro di sé lo invidiava, per la sua fantasia e per quello che forse, veramente, aveva vissuto.

Lo guardava deglutire l’alcool come fosse acqua minerale e rifletteva sul fatto che  aveva vissuto una vita intensa, ma che ora non aveva più nulla, solo l’umiliazione nei bar, tentando di raccontare storie per accaparrarsi qualche birra in più; era un faro la cui luce si stava consumando lentamente.

Il bar chiuse, e si ritrovarono in un vicolo, un ultimo abbraccio fra “colleghi”, e ancora una volta la brillantezza dell’acciaio del coltello in aria; negli occhi di quel marinaio l’eterna gratitudine.

Osservava la porta senza spostare di un millimetro lo sguardo, ormai era solo questione di secondi.

Un ultimo tremendo colpo e vide le mani, gli occhi ardenti di rabbia, nella lieve oscurità.

Improvvisamente, sentì il freddo della pistola alla tempia. Aveva dimenticato completamente l’arma; alzò la testa.

Ed essa sembrò parlargli : “Sì, sono qui con te, oggi ti giudico io, non ti preoccupare, ti farò quest’ ultimo favore, prima che oltrepassino quella porta premerai il grilletto; oggi decido io caro amico; come vedi occupo il tuo posto”.

Quando lo raggiunsero era già chinato col capo sul tavolo e una grossa macchia di sangue ne contraddistingueva i contorni.

Le sorprese non finirono lì.

In quel momento capirono, perché non riuscivano a dare un’identità al “killer delle viuzze”, perché non restava traccia alcuna dopo i suoi attacchi e perché molti casi venissero archiviati così presto.

Nell’alzargli la testa riconobbero il volto ossuto di Nat Coleman, lo sceriffo della Contea, colui che presenziava alle veglie funebri sulla soglia della porta e stringeva le mani ai familiari delle vittime.

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1 commenti per questo articolo

  • Inserito da Loredana il 12/01/2013 17.10.21

    Un altro invidioso del ruolo e dei compiti di Dio…arrogarsi il diritto di giudicare e somministrare punizioni, come se si fosse al di sopra delle parti. Bravo, Raccontafavole, un bel ritratto spaventoso di serial killer giustiziere, anche se con le fattezze inaspettate del “Bene”, in questo caso corrotto.

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Le puttane e il mio modo di giudicarle

Quelle che chiamano puttane al liceo perchè hanno un fidanzato. Perchè si baciano a una festa con un ragazzo. Perchè nel periodo adolescenziale iniziano ad avere desideri sessuali, permessi ai maschi, ma non alle ragazze. Perchè perdono la verginità a 14anni. O quelle che la perdono a 30 e vengono definite piante essiccate o suore.

Quella ingenua che ha donato la sua foto nuda al proprio uomo di cui si fidava ciecamente. E che, poco dopo, l’ha minacciata di mettere in internet o darla ai genitori per ricattarla. Perché il giorno dopo amiche e amici la ripudieranno dopo aver visto la sua foto, definita da tutti pornografica.

Perché non ha resistito alla gogna dei media e si è suicidata.

Quelle che restano incinte e vengono trattate da troie perchè non hanno saputo tenere le gambe chiuse. Che saranno delle fallite perchè diventeranno madri single o quelle più fortunate che si sposeranno, ma sapranno che per la gente rimarranno delle puttane. O quelle che decidono di non avere figli e vengono definite egoiste, persone da stare alla larga, che vogliono divertirsi e basta.

Quelle che escono con uomini sposati. E nonostante lui abbia già deciso di separarsi, la colpa sarà sempre e solo della donna, che distrugge la famiglia. E, il più delle volte, lui non le dice che è sposato.

Perchè si addormentò, quasi svenuta, per aver bevuto troppo e alcuni suoi amici ne approfittarono stuprandola. E lei, dalla vergogna, non li denuncerà mai, portando questi mascalzoni a parlare di lei come della troia della serata.

Quelle che si sposano giovani. O non lo fanno. Quelle che baciano lo sposo nella sua serata d’addio alla vita da single e che il giorno dopo tutto il mondo, persino persone sconosciute, viene a conoscenza. Cioè, il fare qualcosa per cui nessun uomo sarebbe giudicato mediáticamente. Solo pura e sana goliardia. Per divertirsi. Per sentirsi dire dalle amiche che il bacio con colui che il giorno dopo si sposerà non verrà diffuso nel web per la vergogna.

Quelle che ogni tanto nella vita sono state chiamate puttane, semplicemente perchè, in una società oppressiva e patriarcale, non hanno rispettato certe regole di puro bacchettonismo. Perché il corpo e certune  decisioni delle donne si considerano ancora di dominio pubblico. Perché ‘prostituta’, e qualunque insulto equivalente, è la parola atta per etichettare le donne che esercitano diritti per i quali gli uomini non sarebbero mai giudicati.

Alle puttane. Perché non importa quello che farete, vorranno sempre limitarvi, controllarvi e criticarvi. Ma, se essere libere vuol dire accettare tutto ciò, allora viva le puttane…che io adoro.

 

Italia, il Paese dei balocchi? No, dei suicidi. Ecco le cause

L’Italia sta sempre più divenendo il Paese dei suicidi.

C’è chi capisce questo gesto disperato e liberatorio e chi lo definisce pura codardia.

Ci sono individui che si tolgono la vita per problemi economici o perché chiusi in un carcere dove diventa un lusso anche respirare.
Nel periodo aristotelico il suicidio veniva definito un vero e proprio atto di viltà.

Lo stesso Platone, maestro di Aristotele, non accettava il suicidio se non per certune necessità ineluttabili e ne condannava l’atto vergognoso, meritevole di sepoltura senza nome.

Lo stoicismo, al quale mi sento molto vicino filosoficamente parlando, è forse uno dei modelli più conosciuti di norma di vita che accetta il suicidio e, anzi, in determinate situazioni, lo rappresenta come un atto assolutamente naturale.

Seneca, immenso filosofo che ha posto fine alla sua vita con un atto volontario, quantunque imposto da Nerone, ma ben ricordiamo che uno stoico non fa mai nulla contro il proprio volere, spiega nei suoi scritti che il vero stoico, quando ritiene di aver portato a termine il compito che il fato gli ha riservato, può decidere serenamente di uscire dalla vita.

L’approvazione del suicidio è la sintesi di una filosofia che insegna che i mali spesso sono tali solo in apparenza, e la morte non fa minimamente eccezione.

Occorre però ricordare che il suicidio è consentito non come fuga, ma solo quando il proprio dovere è compiuto, e anche in questa circostanza è chiaramente solo una personale scelta.

Pensate a un condannato accusato per un reato che non ha commesso e che, comunque, ha portato avanti una vita di rettitudine e lealtà.

Lo sgomento angosciante che lo attanaglia e che cosparge di disperazione anche i suoi cari, non può che trovare soluzione nel togliersi stoicamente la vita, dal momento che la giustizia sta massacrando senza pietà il suo corpo e la mente. Un’uscita di scena con una lettera che ne spiega il motivo, ben sapendo di aver fino a quel momento svolto una vita di cui non vergognarsi, è un atto da apprezzare e condividere.

Il più delle volte, infatti, si uccide l’innocente, non pronto nell’affrontare un’onta così dilaniante e umiliante; il colpevole lo può fare se già profondamente malato o se oppresso da un’estrema severità all’interno del carcere.

Molti PM sono causa di questi gesti e lo stesso Seneca definirebbe loro i ,veri carnefici del suicida.

Per Epicuro il suicidio è una totale attestazione della libertà umana sulla legge della necessità che governa la natura. Egli scrive: “È una sventura vivere nella necessità, ma vivere nella necessità non è per niente necessario”.

Dante Alighieri collocherà i suicidi nell’Inferno nel cerchio dei violenti contro sé stessi (XI, 40-45 ove condanna Pier delle Vigne. Ma giustifica Catone, uccisosi ad Utica, collocandolo nel Purgatorio poiché aveva rinunciato alla vita per non sottomettersi al regime di Giulio Cesare. Presenta questo personaggio scrivendo: “libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio ,I, 71-72).

Alfieri, dal canto suo, descrive il suicidio come atto non di debolezza ma di vera ribellione: quando gli ostacoli della vita diventano insormontabili e l’uomo si sente sopraffatto da un destino che lo condanna implacabilmente alla sconfitta, egli può ricorrere a tal gesto, inteso, non come vigliaccheria, ma come opposizione a ciò che il fato gli ha riservato.

Personalmente credo che il continuo pensiero verso la morte sia un fattore insostituibile alla creazione della morale soggettiva; fondamentale, pertanto, è l’atteggiamento del suicidio, senza l’dea del quale, sarebbe difficile resistere a qualsiasi dolore.

Il suicidio è dunque l’extrema ratio, sempre costantemente conservata nella sua fattibilità anche se poi non attuata, così da rendere sopportabile ogni dolore del corpo e dell’anima, sapendo che abbiamo questa risorsa da adoperare.